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Ma il paradiso non è un sogno

Per esprimere e raccontare la vita eterna, le sante Scritture ricorrono al linguaggio simbolico, un linguaggio aperto, evocativo e allusivo, un linguaggio rispettoso del mistero, dell’alterità e della santità di Dio. È un linguaggio iconico, dunque poetico, e non dimentichiamo che solo la creatività poetica può osare dire (Audemus dicere…) Dio e cercare di evocare il suo Regno.

La mia generazione ha ancora conosciuto la grazia di una catechesi sui novissimi, cioè sulle «realtà ultimissime» che ci attendono tutti: morte, giudizio, inferno e paradiso. Su queste colonne abbiamo già offerto nel tempo di Avvento una riflessione sul giudizio; ora nel tempo pasquale vogliamo sostare sul tema della vita eterna, chiamata anche, come situazione finale, «paradiso» (da pardes, parola persiana che significa «giardino»: Ne 2,8; Qo 2,5; Ct 4,13). Prima di andare al cuore della riflessione conviene però cogliere l’oggi nel quale viviamo, un oggi nel quale non solo il tema dei novissimi è sovente dimenticato ed evaso, ma in cui predomina il desiderio della vita presente, e dunque manca o non è esercitato il desiderio della vita eterna. Anche i cristiani, se non in certe ore di sofferenza, non si sentono più «esuli… gementi e piangenti in questa valle di lacrime» – come si canta nell’antifona mariana Salve Regina –, e dunque non hanno molta attesa della vita in Cristo al di là della morte e sentono il paradiso come un sogno, una chimera. Sì, come ha scritto Benedetto XVI, i cristiani non sembrano volere la vita eterna, anzi la vita eterna appare ad alcuni un ostacolo al vivere bene oggi la vita in questo mondo. Da monaco, conosco tra gli strumenti della vita cristiana questo esercizio: «Desiderare la vita eterna con tutta la concupiscenza spirituale» (Regola di Benedetto 4,46): Vorrei però ricordare anche una pratica che mi era stata insegnata fin da quando ero piccolo. Forse per il fatto di avere perso mia madre a 8 anni, tutte le domeniche pomeriggio dopo la liturgia dei vespri venivo portato, e poi più tardi andavo da solo, al cimitero, per compiere la visita ai morti. Nel fare ritorno a casa avevo ricevuto la raccomandazione di sgranare la corona del rosario sussurrando a ogni passo: «Gesù Cristo è la vita eterna». Parole che mi sono sempre rimaste impresse, che certo allora mi consolavano nella mia orfanità, ma che più tardi sono diventate parole martellanti nel dubbio, nella paura, nella perdita di persone care. Gesù Cristo è la vita eterna perché, se è lui il Risorto vivente, se è lui che ha vinto la morte, chi può separarci dal suo amore (cf. Rm 8,35)? Se lui si fa sentire accanto a me, se posso dire che io e lui viviamo insieme (cf. 1Ts 5,10), se lui mi ama, mi consola e mi ispira ogni giorno, potrà abbandonarmi al di là della morte?

Impossibile! Cristo è fedele e, se ora è accanto a me, lo sarà anche nella morte, e al di là della morte sarà pronto ad abbracciarmi perché io sia sempre con lui e con i suoi e miei amici. È così che la vita eterna può essere non solo una speranza, ma può anche essere desiderata, pur nella consapevolezza del dover attraversare le acque oscure della morte, acque che – secondo il grande Origene – possono essere espiazione dei peccati. Di vita eterna ci ha parlato Gesù, per indicare quella vita salvata dal peccato e dalla morte che Dio donerà al discepolo che segue fedelmente il suo Maestro e Signore Gesù Cristo. La vita eterna è ciò che si può ottenere osservando i comandamenti, cioè facendo la volontà di Dio, amando dunque Dio al di sopra di tutto e con tutto il proprio essere (cf. Dt 6,5; Mc 12,30 e par.); la vita eterna è l’eredità che Dio dà ai suoi eletti, ai credenti in suo Figlio Gesù Cristo; la vita eterna è lo zampillare dell’acqua viva che Gesù fa sgorgare dal cuore del discepolo (cf. Gv 4,14); la vita eterna è il dono fatto dal Padre a chi muore avendo operato il bene. E tuttavia la vita eterna è sì una realtà che fiorisce e sboccia dopo la morte fisica, ma è una vita già innestata nel credente qui e ora, a partire da quell’immersione nelle acque del battesimo in cui si depone la vita dell’uomo vecchio e si risale dall’acqua rivestiti di Cristo (cf. Gal 3,27) e dotati della capacità di vivere la vita eterna. Per questo sta scritto: «Chi ama il fratello passa dalla morte alla vita» (cf. 1Gv 3,14). Chi aderisce a Gesù, ascolta la sua parola e vive di essa, mangia la sua carne e beve il suo sangue, e lo segue ovunque vada (cf. Ap 14,4), ha in sé la vita eterna come un seme che crescerà e darà il suo frutto nel Regno. E così si compie la parola di Gesù: «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17,3). Per esprimere e raccontare la vita eterna, le sante Scritture ricorrono al linguaggio simbolico, un linguaggio aperto, evocativo e allusivo, un linguaggio rispettoso del mistero, dell’alterità e della santità di Dio. È un linguaggio iconico, dunque poetico, e non dimentichiamo che solo la creatività poetica può osare dire (Audemus dicere…) Dio e cercare di evocare il suo Regno. Ecco perché, per raccontare la vita eterna, si è imposta soprattutto un’immagine biblica, simbolo della beatitudine eterna: il paradiso. Gesù sulla croce, al ladrone crocifisso con lui che lo prega, dichiara solennemente: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso» (Lc 23,43), ovvero «oggi tu sarai con me, accanto a me, insieme a me, e dunque sarai anche tu in Dio, in quel pardes, in quel giardino dove si vive la vita eterna». Nell’in-principio creazionale Dio ha piantato per l’uomo «un giardino in Eden» (gan be-’eden: Gen 2,8) come luogo della comunione tra sé e l’uomo stesso, l’adam, luogo teologico posto agli inizi della storia ma che profetizza la fine della storia. I profeti, soprattutto Ezechiele e il deutero-Isaia, hanno poi fornito alla speranza escatologica delle immagini, dei simboli, quasi ad aprire un varco che chiede ai lettori una lettura teleologica, aperta sulle realtà finali, sicché i Padri della Chiesa hanno potuto scrivere: «Dio creò l’uomo e lo pose nel paradiso, cioè in Cristo». Sì, Cristo è il paradiso, è il luogo u-topico, senza luogo, della comunione piena e priva di ombre con Dio. Il paradiso è la nostra patria, la nostra vocazione, il dono che ci attende.

Per questo dicono ancora i Padri della Chiesa, in particolare quelli orientali: «L’uomo è un essere che ha ricevuto la vocazione di diventare Dio». Per narrare questa verità, questa speranza indicibile, la Bibbia ricorre a immagini diverse che indicano la vita piena (shalom), la gioia (beatitudine), la vita eterna (per sempre) e di conseguenza la convivialità (comunione) e la luce (non più le tenebre del peccato). Sono immagini che si riferiscono ai bisogni umani della sfera affettiva, sessuale, sociale e politica: il cibo, l’amore, l’incontro sessuale, l’amicizia, la convivenza pacifica, l’assenza di pianto e di lutto. Sono le promesse del Dio vivente, del Dio fedele all’alleanza, «che non mente» (Dt 32,4), che è «amante della vita» (Sap 11,26), del «Dio misericordioso e compassionevole» (Es 34,6, ecc.). Sono immagini tanto semplici quanto universalmente umane, umanissime: il banchetto con cibi e vini squisiti (cf. Is 25,6; Mt 22,1-10); le nozze, che sono sempre comunione profonda di tutto l’essere (cf. Ap 17,7-9; 21,2); la pace tra i popoli e la scomparsa della guerra (cf. Is 2,4; 9,6); la concordia tra gli animali e tra gli uomini e le bestie feroci (cf. Is 11,6-8). Si ricorre anche a dimensioni ludiche, come il giocare del lattante con il serpente velenoso (cf. Is 11,8), la danza, la festa della nuova creazione, in cui i cieli nuovi e la terra nuova innalzano la lode a Dio (cf. Is 65,17; 66.22; Ap 21,1). È una lode cosmica in cui tutte le creature esprimono il loro «amen», il loro «sì» a Dio, è un ringraziamento per il compimento dell’opera divina… Come annunciare questa realtà della vita eterna, del paradiso? L’Apocalisse di Giovanni, al termine delle sante Scritture, tenta a più riprese questa profezia: un banchetto di nozze per l’Agnello sgozzato ma risorto e ora in piedi e vittorioso; attorno a lui tutti i salvati impegnati in una liturgia, in una danza, in una pericoresi, vera circolazione di amore, l’amore del Padre amante, del Figlio amato, dello Spirito amore. Dio è la dimora dell’umanità, il Regno è la dimora del cosmo e la festa è trasfigurazione di tutti e di tutto in Cristo, con Cristo e per Cristo, uomo e Dio. Questa comunione è comunione tra Dio e ogni volto, comunione personalissima, ed è comunione tra umani: Dio «sarà Uno» (cf. Zc 14,9) e una in Dio sarà l’umanità redenta. Di fronte a queste immagini bibliche della vita eterna, in ogni epoca si è cercata una rappresentazione dei beati, del paradiso, sovente contrapposta a quella dei dannati, dell’inferno. Nelle chiese medioevali, dove dominava il Pantocratore, il Veniente glorioso, si potevano vedere alla sua destra i beati e alla sua sinistra i dannati. Era un ammonimento per quanti vedevano questa raffigurazione, un richiamo alla realtà del giudizio universale che un giorno sarà manifestato ma che si decide già oggi nella nostra vita. Domani, in quel giorno escatologico, il giorno del Signore, si udrà: «Venite, benedetti…», ma tutto è già deciso nella nostra vita; lo decidiamo quando vediamo un affamato, uno straniero, un malato, un povero (cf. Mt 25,31-46). Dall’atteggiamento che assumiamo ora e qui decidiamo se a noi saranno rivolte le parole: «Venite, benedetti…» (Mt 25,34), oppure: «Andate via, maledetti…» (Mt 25,41). Decidiamo se saremo nell’amore della comunione con Dio o fuori di quella comunione, cioè in una situazione di morte. È in ogni nostro oggi che Dio dice a ciascuno di noi: «Oggi io pongo davanti a te la vita e il bene, la morte e il male… Scegli dunque la vita!» (Dt 30,15.19).

Al termine di queste tracce sulla vita eterna oso pensare al Giudizio universale di Michelangelo nella Cappella Sistina: i beati sono tutti in festa, spesso abbracciati tra di loro, nell’atto di baciarsi, guardando ognuno il volto dell’altro, in cui si vede il volto di Cristo. Ispirato da questa immagine, concludo citando uno stupendo canto liturgico previsto dalla liturgia ortodossa per la notte pasquale: «O danza mistica! O festa dello Spirito! O Pasqua divina che scende dal cielo sulla terra e dalla terra sale di nuovo al cielo! O festa nuova e universale, assemblea cosmica! Per tutti gioia, onore, cibo, delizia: per mezzo tuo sono state dissipate le tenebre della morte, la vita viene estesa a tutti, le porte dei cieli sono state spalancate. Dio si è mostrato uomo e l’uomo è stato fatto Dio. Entrate tutti nella gioia del Signore nostro; primi e secondi, ricevete la ricompensa; ricchi e poveri, danzate insieme; temperanti e spensierati, onorate questo giorno: abbiate o no digiunato, rallegratevi oggi! Nessuno pianga la sua miseria: il Regno è aperto a tutti!».

 

Enzo Bianchi

© Avvenire, 15 aprile 2013